La banda Salvatores

Hanno dai trenta ai quarant’anni. Si muovono in gruppo, dedicano “Mediterraneo” a “quelli che scappano” e vincono l’Oscar. Sono come una squadra di calcio, o meglio, come una classe di scuola. Tutti parlano e scrivono di loro: loro sparlano e scrivono da sé. In esclusiva per Marie Claire.

Testata
Marie Claire
Data
Maggio 1992
A cura di
Rossella Venturi
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Tutti li guardano, lì sul grande schermo, e sospirano d'invidia: «Beati loro, che hanno trovato il modo di lavorare divertendosi». Li chiamano "la banda Salvatores" e per molti trenta-quarantenni, ma non solo, sono diventati un cult. Hanno cominciato negli anni Settanta in cabaret e in teatro («Era il nostro modo di fare politica»), hanno attraversato gli Ottanta con furbizia ma senza perdersi né "pentirsi", e nei Novanta sono approdati all’Oscar. «Fate come i soldati di Mediterraneo: fermate la guerra», ha detto Gabriele Salvatores tra i lustrini del Chandler Pavillion. Poi da Hollywood lui e Diego Abatantuono sono volati in Messico, per terminare le riprese del nuovo film, Puerto Escondido, storia di un viaggio-metafora, come già Marrakech Express e Mediterraneo, che parla di fuga, amicizia, solidarietà, della ricerca di un altrove, di diserzione dal conformismo e dall’omologazione. Gabriele Salvatores, Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna, Claudio Bisio e gli altri di Mediterraneo sono questo mese collaboratori d'eccezione di Marie Claire. Abbiamo chiesto loro di ritornare a scuola per un giorno e di scrivere un tema in classe per noi. Titolo: i miei compagni di film. Ecco i loro lavori. In ordine alfabetico, naturalmente.

I miei compagni di film, innanzitutto, non sono soltanto gli attori. Il cinema è un lavoro di squadra e ci sono gli sceneggiatori, i macchinisti, il direttore della fotografìa, il costumista, i montatori, i tecnici, gli aiuto alla regia. Quanto agli interpreti, non li ho mai considerati degli attori solamente ma degli autori, gente che non fa il film per me o con me, ma insieme a me. Li ho conosciuti quasi tutti al teatro dell’Elfo di Milano, che negli anni Settanta era un po' il nostro modo di fare politica, e poi ci siamo avventurati insieme nel cinema. Alcuni sono grandi amici, altri dei complici, con tutti andrei (e vado) fuori a cena. Non è una classe facile, intendiamoci: girare un film esige anche regole, divieti, orari, un genere di cose in cui questo gruppo può essere ingestibile.

In ogni caso, meglio così che morti in piedi o, peggio ancora, finti. Giuseppe Cederna è diligente, attentissimo, analitico, studia molto la parte, si appassiona, è quello che si prepara sempre per l'interrogazione e in classe, se sa la risposta, non può fare a meno di alzare la mano. Gigio Alberti, invece, lascia grande spazio all’improvvisazione e se ne sta sempre seduto in un banco laggiù, un po' in disparte, riservato, molto timido. Il contrario di Bisio, che ha il voto più basso in condotta, fa dispetti a tutti e continui scherzi alla maestra. Le battute più cattive, però, sono di Antonio Catania, legge molto ma non fa niente per farlo vedere e prende comunque regolarmente ottimi voti. Poi c'è Memo Dini, in Mediterraneo è uno dei fratelli Muneron e va bene in ginnastica.

Sul set ci teneva dei corsi di yoga tutte le sere, al tramonto, nella piazzetta deserta e diroccata di Kastellorizo, nella parte vecchia del paese. Ogni film ha il suo rito: per un po' quello di Mediterraneo è stato lo yoga, in Turnè c'erano le partite di calcio al videogame, in Puerto Escondido la pallavolo sulla spiaggia. Il ripetente? Forse Bigagli, il tenente Montini: sembra il più vecchio, quello che ha già vissuto certe cose, ha ritmi lenti, l’aria malinconica, la capacità di ascoltare prima di parlare, cosa molto rara e che manca a Diego. Abatantuono è uno dei miei più grandi amici ed è assolutamente incapace di stare zitto, deve sempre occuparsi di tutto e tutti, fa casino, si fa suggerire spudoratamente, copia, ma è sempre promosso perché è troppo intelligente e vede e capisce tutto. Le donne? Ogni tanto ne arriva qualcuna, Irene Grazioli e Vanna Barba in Mediterraneo, Valeria Golino in Puerto Escondido, non è una classe rigidamente maschile ma è fondamentalmente un gruppo di uomini, malato di un cameratismo un po' difensivo, perché là fuori fa freddo ed è meglio stare dentro al calduccio. Un aspetto dell’amicizia maschile, questo, che non amo perché può essere una trappola, un non saper star soli e fare i conti con se stessi. Nei rapporti tra le donne mi sembra sempre che ci sia qualcosa di più, di più profondo, sono loro nei miei film che fanno esplodere le contraddizioni e crescere tutti quanti. Ha ragione Truffaut: in amore, e io aggiungo nella vita, noi siamo dei dilettanti. Le professioniste sono le donne.
Gabriele Salvatores


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Io ho 36 anni, Antonio Catania ne ha 40, Salvatores addirittura 41: ci chiamano “i ragazzi di Mediterraneo”. Qualcuno se la prende perché dice che anche quando vinciamo l’Oscar ci trattano come degli eterni principianti. A me le definizioni non interessano, dicano un po’ quello che gli pare, ma il cosiddetto “gruppo Salvatores”, in realtà, non funziona come una vera e propria classe, è piuttosto una scuola a libera frequenza, un sistema satellitare: chi entra, chi esce, chi ritorna, chi va. Includerei anche David Riondino, Paolo Rossi, Silvio Orlando: non sempre si lavora insieme ma c’è un senso comune in quello che si fa. Gabrieole Slavatores l’ho conosciuto in teatro, all’Elfo, ho fatto Comedians, Eldorado, poi Kamikazen, Marrakech e Mediterraneo. Il modo di lavorare con lui è produttivo-rilassato, molto spazio all’improvvisazione, libertà di intervenire sulla parte. Mi ricorda la mia classe al liceo classico manzoni di Milano: all’inizio una come tante, regolare, poi trasformata giocoforza in una sezione sperimentale perché era impossibile farle seguire i programmi ministeriali. Era fatta di studenti intelligenti ma non intellettuali, politicamente impegnati ma malvisti dai militanti seriosi dei partitini studenteschi di allora, eravamo irrequieti, di quelli che poi si sono iscritti a un paio di facoltà universitarie e le hanno piantate a metà entrambe perché risucchiati dalla vita. Io ho fatto Agraria per un anno e mezzo poi Lettere fino a quasi la fine degli esami, ma in verità volevo soprattutto evitare di fare il militare. Al Manzoni non andavo bene in nessuna materia, sempre promosso, mai rimandato, ma ero l’uomo della salvezza raccattata nelle ultime tre settimane alla disperata.

Mi ricordo come un incubo mostruose nottate di studio fino all’alba, tutto il programma di storia, dalla caduta dell’impero romano alla rivoluzione francese, in una botta sola. Tra i ricordi più belli di Mediterraneo, invece, c’è quello di Bigagli che si tuffa in mare per salvare una bambina caduta in acqua e riaffiora completamente coperto di ricci. Eroico.

Bigagli non è un tipo marinaro. E, infatti, è l’unico che dopo due mesi di Grecia infuocata ha mantenuto il suo cadaverico pallore cittadino. Lui dice che si è trattato di esigenze di copione, che il tenente Montini, il suo personaggio, doveva mantenere l’aria da intellettualino: storie. Ma nessun ricordo è più commovente per me di quello del mio compagno di banco: la mula. Mi manca. In realtà era un asino perché sull’isola di muli non ce n’erano. Abbiamo tentato di importarne uno da Rodi: impossibile. Abbiamo provato ad andare a prenderne uno in Turchia: vietato. Allora abbiamo pensato di addormentarne uno, caricarlo sulla barca e farlo passare per morto: niente da fare, un mulo in Grecia si poteva portare solo macellato, già fatto a pezzi.

Così ci siamo arresi all’asino, ma quello che abbiamo trovato era zoppo, si fermava sempre nel mezzo di una scena, non voleva camminare. Io comunque gli volevo molto bene e ne volevo anche al secondo asino del film, che doveva essere bianco, non lo era, e veniva dipinto tutti i giorni con dei colori ad acqua. A un certo punto avrebbe dovuto trasformarsi in un asino alato, in un’allucinazione di Bigagli colto da insolazione dopo essersi addormentato sulla tomba di Omero.Ma la scena è stata tagliata. Peccato. Con le ali, il mio ciuco era bellissimo.
Gigio Alberti


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Sono nato a Montale, in provincia di Pistoia, ma vivo a Roma da quindici anni, ho frequentato l’Accademia qui. Poi ho conosciuto Antonio catania, Giuseppe cederna, Claudio Bisio e lo sceneggiatore Enzo Monteleone, avevo incrociato Diego ma non avevo mai lavorato con la “banda Salvatores” e Gabriele l’ho incontrato la prima volta per Mediterraneo. Insomma, sono un “nuovo”. Il gruppo mi ha accettato subito, persone in gamba, rapporti idilliaci con i colleghi e, giuro, non lo dico per piaggeria.

E’ vero che con loro si lavora divertendosi. Gabriele viene dal teatro ed è un regista che sa lavorare stupendamente con gli attori, ti chiede sempre di essere positivo e sa creare un’atmosfera di grande solidarietà e rsipetto, molto stimolante, in cui tutti parteggiano per gli altri e aiutano ciascuno a dare il meglio. Sembra una banalità, ma sui set non succede spesso.

Il capo della giostra è Diego, che è come un bambino che ha sempre voglia di giocare, di fare tutto insieme agli altri, non sopporta di stare zitto e di stare solo: una volta ci siamo dimenticati di svegliarlo in occasione di una festa e ci ha tenuto il muso per una settimana. L’atmosfera a Kastellorizo era un po’ quella dei ragazzi in gita e gli scherzi sono stati un aspetto fondamentale del set di Mediterraneo, come quello di tirarsi i gavettoni d’acqua, in puro stile da caserma, visto che nella finzione eravamo dei soldati e i ruoli che ciascuno aveva nel film piano piano finivano per influenzare quelli all’interno del gruppo.

Diego, per esempio, anche la sera, terminate le riprese, continuava ad essere il serpentone esuberante. I fratelli Muneron, vale a dire memo e Vasco, invece, nella storia di Mediterraneo se ne stavano un po’ in disparte, lassù sulla collina, e anche nella realtà viaggiavano un po’ per mondi loro, facevano lunghe nuotate, si abbronzavano.

Memo andava a letto presto e teneva lezioni di yoga al gruppo; Vasco, invece, era il nostro poeta e quando, finito il film, abbiamo fatto la festa di commiato, ci ha sorpreso tutti consegnando a ognuno di noi una poesia personalizzata che aveva scritto appositamente. Erano delle specie di epigrammi, alcuni francamente irripetibili, posso dire solo che la mia parlava “calunniosamente” dei miei rapporti con le donne, diceva che guardavo sotto le gonne, cosa non vera perché sull’isola stavamo tutti in costume da bagno.

L’unica cosa che è mancata è stata la festa per l’Oscar ricevuto: Diego, Bisio e Gabriele erano in Messico, io e Cederna giravamo Gangster di Massimo Guglielmi a Genova, eravamo tutti sparpagliati. Quando Gabriele e Diego sono tornati erano passati già dieci giorni, ognuno aveva da fare mille cose. Peccato, ma comunque ci rincontreremo.
Claudio Bigagli


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Sono contento che la squola che abbiamo eseguito era all’aperto. Io che di cognome faccio BISio ero addirittura quarto. Prima di io c’era l’ABAtantuon, l’ALBerti e il BIGagli. Questo produceva che se si fosse interrogato in ordine alfabetico non sarei mai il primo. Ma così non era. Si interrogava per ordine di alzata di mano. E allora ero ultimo. Il primo era sempre il cederna che sapeva molte cose perché proveniva da una famiglia di benestanti. Parlo all’imperfetto pèerché ormai la squola è finita da due anni e ci hanno anche dato un premio gli americani. Bontà loro. Non si facevano neanche delle gite di fine anno primo perché la squola durò due mesi, secondo perché eravamo praticamente al mare e di fare una gita in una città col smog e la polluzione diurna nessuno c’aveva voglia. Io ero uno dei più bravi in italiano anche perché molti degli altri erano grechi. Mi ricordo molto il catania e l’Alberti che eravamo insieme fin dall’asilo. Uno studiava tanto e rendeva poco, l’altro studiava tanto e basta. Il più zuzzerellone di tutti era l’Abatantuono che è di quelli che studiano poco perché gli piace di più giocare al pallone. Solo che lui non sapeva neanche giocare al pallone. Se lo sa che dico queste cose di lui mi ammazza.

Non perché sia violento, ma perché non vuole che si dicano certe cose.

Il Bigagli è forte. Non gli daresti mille lire. Ma neanchio gliele darei. E di fatti nessuno gliel’ha mai date, però quando un giorno si arrabbierà e se le prenderà, le mille lire, avreste capito cos’ho voluto dire. Il Dini e il Mirandola (devo aprire una parente. Metto sempre l’articolo indicativo prima del nome non perché sono famosi come il Masaccio, ma semmai perché io sono lombardo). Loro due, dicevo, si facevano chiamare “fratelli Munaron” e facevano finta di parlare il veneto.

Non l’ho mai capito il perché. Sta di fatto che uno scriveva poesie e l’altro saliva la pertica con le mani.

Il Conti si chiamava Ugo e anche adesso che l’ho rivisto non è cambiato. Si chiama sempre Ugo e tiene al Milan. E voglio ringraziarlo pubblicamente perché mi ha fatto vedere una partita del Milan dalla tribuna essendo lui amico di Mauro Tassotti.

Infine bisognerebbe spendere una parola per il maestro. Si chiamava Slavatore e è difficile trovare gli aggettivi giusti, ma anche gli avverbi, perché se li sbagli lui potrebbe rivalersene contro un domani. Io viceversa spero ardentemente di trovarmi ancora in classe con lui, anche perché lui è bello, simpatico, intelligente, burbero quel giusto che basta, avvinghiante, seducente, interrogativo, introspettivo, solare e furbo. Grazie Salvatore.
Claudio Bisio


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Sono arrivato a Kastellorizo sul finire dell’anno scolastico, per frequentare un corso di aggiornamento cinematografico che doveva essere di quattro giorni e poi ne è durato dieci. In realtà io non volevo andarci, ma loro mi telefonavano, “Vieni, ci divertiamo”, io diffidavo, mi sembravano il Club Nediterranée. Alla fine Claudio Bisio mi ha convinto. Mi ci sono voluti ben quattro aerei per raggiungerli, mica uno scherzo, e quando finalmente sono arrivato li ho trovati rassegnati, non so se all’idea di dover ripartire presto o a quella di doversi fermare sull’isola per sempre. C’erano quaranta gradi all’ombra e giravano vestiti da soldati, giubbotto, occhiali da sole, l’aria da “se dobbiamo morire, okay, pazienza”. In ogni caso il programma era molto intenso: la mattiva si faceva colazione a base di “tahini”, una salsa fatta di sesamo, si andava in barca a fare il bagno, si remava e ci si metteva la maschera; il pomeriggio si giocava a calcio-tennis, lo sport nazionale dei kastelloriziani; la sera discoteca con frequenza obbligatoria. Erano tutti molto abbronzati, indossavano la divisa della scuola che, come ho detto, assomigliava molto a una vecchia unifrome militare, erano tutti molto diligenti.

L’unico un po’ indietro con il programma era il Cederna, che spesso bigiava la lezione al mare. Bisio, invece, era palesemente un infiltrato. Gli altri erano atori, lui è un cantante. Adesso si è messo a fare anche i dischi, ha pubblicato Paté d’animo, un Lp rap, ma è una vecchia storia. Ha cominciato come tutti noi, alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e me lo ricordo quando per il saggio finale è riuscito a convincere gli insegnanti ad allestire The Rocky Horror Picture Show. Parliamoci chiaro: lui è come Little Tony e Johnny Dorelli, un musicante prestato al cinema, il suo futuro è nelle balere. Ci ho appena girato insieme Puerto Escondido e vedrete, Bisio è identico a Little Steven, stesso foulard annodato in testa, stessa mania di esagerare. A proposito di esagerati: chi abita a Milano si ricorderà di un ristorante greco che c’era una volta sui Navigli, Tanassis si chiamava.

Bene: Tanassis l’ho rincontrato proprio a kastellorizo, faceva l’assistente scenografo, sempre ubriaco, arrivava a notte fonda su una barchetta, attraccava davanti alla discoteca e una votla su due, tentando di scendere dall’imbarcazione, finiva vestito in acqua. Noi lo vedevamo arrivare da lontano e aprivamo le scommesse: cade o non cade? Quanto a Salvatores, l’abbiamo mandato a los Angeles e ci ha portato l’Oscar, non si potrebbe chiedergli di più. E’ riuscito a conquistare anche gli americani e a cavarsela con l’inglese.

Io al Chandlier Pavillion purtroppo non ci sono andato, ma il Carlino di Longiano, dove abito, ha dedicato un articolo a me e a mio figlio, che ha nove anni e va a scuola lì. Il sindaco mi ha anche mandato un telegramma.
Antonio Catania


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Siamo arrivati a Kastellorizo tutti bianchi, con i capelli lunghi e ognuno le sue nevrosi personali. Poi è iniziata la trasformazione: abiti militari, taglio della zazzera e un caldo disumano. In Marrakexh Express eravamo sempre in viaggio, c’era il deserto e posti sempre nuovi da scoprire, il gruppo era più proiettato verso l’esterno. In Mediterraneo, invece, c’è stato l’effetto isola: meravigliosa ma terribilmente piccola, sempre gli stessi ristoranti, la coazione a incontrarsi ogni sei secondi, l’impossibilità di fuga, la voglia di evadere e insieme quella di non andarsene più. E’ quello che succede anche ai personaggi del film: il gruppo sbarca unito soltanto da una divisa assurda e da un compito ancora più assurdo e poi, piano piano, si spoglia di tutti questi orpelli e ognuno si addentra in un suo percorso personale e scopre delle cose di se stesso.

Chi va a cercare il mito di Omero, chi scappa, chi si arrampica su una montagna, chi si innamora e decide di fermarsi.

Ritrovarsi a lavorare con le stesse persone è bello e strano: bello perché ti conosci, il gruppo ti dà sicurezza, protezione e ti senti un po’ come in famiglia; strano perché, se da un lato, c’è il continuare qualcosa di già iniziato, dall’altro c’è la sfida ai limiti del lavoro fatto insieme, il tentativo di andare oltre. A me piace lavorare sul personaggio, dilatarlo, stringerlo, arricchirlo, cambiarlo, prendermi degli spazi di interpretazione, e con Gabriele questo è possibile, è possibile discutere. Di lui mi fido perché ha una sua misura. Per Mediterraneo si è parlato di yoga: è vero, l’abbiamo praticato in una bellissima piazzetta, sotto dei cipressi e sotto la guida del nostro maestro Memo Dini, ma la fase zen è durata poco, perché Diego di yoga non ne voleva sapere e fli avevamo vietato di venire a guardarci perché bastava la sua presenza e scoppiavamo tutti a ridere.

Come se non bastasse liu aveva affittato un motorino e mentre noi eravamo nel pieno degli esercizi di respirazione, arrivava smanettando a tutto gas. Il fatto è che lui non riesce a stare da solo perché non si diverte, ha bisogno sempre del gruppo e così siamo passati al più occidentale calcio-tennis, in cui si è cimentato anche Bigagli, notoriamente negato per il football. Il calcio-tennis è un gioco nato come surrogato del calcio, che a Kastellorizo è impraticabile poiché manca uno spazio abbastanza grande. In una piazzetta però c’è una rete da pallavolo, l’abbiamo abbassata e giocavamo un misto di calcio, volley e tennis: i passaggi di palla avevano delle regole da pallavolo, però si potevano usare solo testa e piedi. L’Oscar? Una grande emozione, ma non montiamoci la testa. Prendiamola come una cosa arrivata dagli americani e andiamo avanti.
Giuseppe Cederna


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Diego Abatantuono

«Chiariamo subito: l’Oscar che ci hanno dato premia il film, nel suo complesso, ed è un premio collettivo. Appartiene a tutti, l’hanno vinto il regista e gli attori così come il direttore della fotografia Italo Petriccione e la sua assistente Silvia Salomon, il costumista Francesco Panni, i tecnici, i montatori. Insomma, sì: credo proprio che dovremmo fonderla quella statuetta!».

Diego Abatantuonofinalmente si riposa, per un po’ starà lontano dai set. «Anche perché», dice, «dopo l’Oscar, Mediterraneo è ritornato nelle sale e questo ha fatto slittare a settembre l’uscita di Continente nero, il film che ho fatto con Marco Risi. Poi, in inverno, uscirà Puerto Escondido: anche se tornassi su un set oggi la pellicola dovrebbe stare lì in cantina perché altrimenti ci sarebbero troppi “abatantuoni” in giro».

Quindi, nel suo immediato futuro che cosa c’è, soltanto ozio e riposo?
«Sì, innanzitutto le vacanze con mia figlia, che ha otto anni. Nel frattempo scriverò insieme a Giovanni Veronesi la sceneggiatura di Per amore, solo per amore, tratto dal romanzo di Pasquale festa Campanile. Le riprese del film inizieranno a settembre e per Veronesi sarà il debutto alla regia».

Firmerà la regia anche di “Puerto Escondido”, se non sbaglio.
«Sì, in realtà è un lavoro che nel film di Slavatores ho sempre fatto, perché con Gabriele non recito soltanto, decidiamo insieme tutti i dettagli della strategia di gioco, come in una partita. Un film con marco risi o Pupi Avati funziona così: leggo la sceneggiatura, mi piace, ico di sì, ritocco i dialoghi perché fa parte del mio mestiere di attore, poi recito le mie battute, stop. Con Gabriele, invece, facciamo i sopralluoghi insieme, insieme scriviamo la sceneggiatura, la modifichiamo strada facendo, pensiamo a chi coinvolgere… E’ un lavoro a 360 gradi».

Ha parlato di una partita di calcio: il segreto per vincere lo scudetto?
«La squadra. Come il Milan: nucleo centrale di titolari e una panchina forte. Il gruppo costante siamo io, Salvatores, Ugo Conti, Petriccione, Panni, la Salomon e tutti i tecnici. E poi ci sono Bisio, Cederna, Bentivoglio, Catania, Alberti…: tutti elementi assolutamente di prim’ordine e decisivi, che entrano ed escono dal campo a seconda della partita da giocare. Quanto al successo del nostro cinema, semplice: è un cinema concreto, parte dalla vita, da quello che sentiamo e che succede dentro e attorno a noi. Il pubblico risponde perché le nostre storie riguardano anche lui».

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