IL FILM 1 - Tra bassifondi milanesi e sinistra post '77, l'esordio del regista Sigon è in buona parte riuscito. Ma il cinema dovrebbe usare più spesso un attore come Claudio

Testata
L'Unità
Data
3 febbraio 2006
Firma
Alberto Crespi
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«Spaghetti noir». Così Carlo Sigon definisce La cura del gorilla, il suo esordio nella regia interpretato da Claudio Bisio e tratto dall'omonimo romanzo di Sandrone Dazieri. «Spaghetti noir» in salsa no-global, dovremmo aggiungere, e senza stupirsi più di tanto: sia il western all'italiana sia il giallo/poliziottesco, i due generi italiani ai quali allude Sigon (sul «noir» hollywoodiano o francese andrebbero fatti altri discorsi), sono sempre stati fortemente politicizzati. Soprattutto il primo, che grazie a titoli come Faccia a faccia di Sollima, Quien sabe? di Damiani e Requiescant di Lizzanì è stato il genere «sessantottino» per eccellenza.

Ecco, La cura del gorilla è uno spaghetti-noir post-settantasettino, perché quello è il periodo al quale sono legati Dazieri e Bisio, e d'altronde dietro il film c'è la Colorado di Gabriele Salvatores e Maurizio Totti, quindi un mondo che si riconosce in una certa sinistra extra-parlamentare milanese che oggi ha in Dario Fo un referente culturale e politico: pochi lo sanno e molti, magari, vogliono dimenticarlo, ma il Bisio che con Zelig porta Mediaset ad ascolti stratosferici viene da lì, dal teatro militante, dall’avanguardia. Lui e Dazieri hanno scoperto a posteriori di essersi incrociati al Leoncavallo e di avere un background comune. E non è certo un mistero che lo scrittore cremonese, creando il personaggio del Gorilla - un bodyguard/investigatore pelato, corpulento e schizofrenico - si sia ispirato proprio a Bisio. Solo lui poteva portare al cinema questo personaggio, anche se dei tre suddetti aggettivi solo «pelato» gli corrisponde.

Bisio è, secondo noi, un attore straordinario. Accoppia, ad una simpatia innata, un talento eclettico che gli consentirebbe di spaziare da Beckett allo slapstick, se solo il cinema italiano gliene offrisse le occasioni. Invece era dai tempi di Asini (1999, sette anni fa!) che il cinema lo snobbava. Lui, d'altronde, forte del successo televisivo può permettersi di accettare solo ruoli in cui si riconosca. L'offerta della Colorado era di quelle irrinunciabili.

Il risultato è un film riuscito solo al 70% (che non è poco), ma sicuramente interessante, se non altro per come mescola il genere a un sottotesto politico non banale. Sandrone (il personaggio si chiama come lo scrittore), come si diceva, alterna il lavoro di guardia del corpo a improbabili indagini in proprio. E’ una sorta di relitto umano abituato a frequentare i bassifondi di una Milano notturna, dai colori pop, piena di vagabondi e di disperati. Reduce da un «caso» che l'ha ridotto in fin di vita, Sandrone accetta di custodire una vecchia mummia hollywoodiana (è l'attore Ernest Borgnine, molto spiritoso nel fingersi vecchio e rincoglionito) venuta in Italia per sponsorizzare una linea di videogame. Nel frattempo, Sandrone conosce Vera (Stefania Rocca), una ragazza che lavora in un centro di accoglienza per immigrati ed è innamorata di un giovane albanese. Quando il ragazzo viene ucciso, Sandrone vorrebbe lavarsene le mani, ma le suppliche di Vera, e la sua avvenenza, lo convincono. Inizia un'indagine che porterà Sandrone nel ventre della metropoli, alle prese con poliziotti corrotti, hacker sovversivi, mostruosi esponenti della «Milano da bere»… e preti che sotto la toga nera nascondono un cuore dello stesso colore.

L'esordiente Sigon, regista pubblicitario, esagera appena un po’ in vezzi di stile. Il versante «spaghetti noir» e quello impegnato faticano a coesistere; in compenso, quando Bisio si trova sulla propria strada vecchi compagni di merende come Bebo Storti, Antonio Catania e Gigio Alberti irrompe nel film una vena comica che lo rende godibile. Nel complesso, un esordio da incoraggiare.