Ma Godot non arriva nella 5 C

A Milano un testo inglese di Nigel Williams e uno di Beckett
Elio De Capitani dirige ed interpreta all’Elfo “Nemico di classe”, scritto dal trentacinquenne autor inglese, tradotto ed adattato dallo stesso regista

Testata
Corriere della sera
Data
5 marzo 1983
20 aprile 1983
Firma
Roberto De Monticelli
Immagini
Immagine dell'articolo sul Corriere della Sera (1)
Immagine dell'articolo sul Corriere della Sera (2)

Questa commedia di Nigel Williams, giovane autore inglese (ha trentacinque anni ma la scrisse nel ’78), Nemico di classe, che il Teatro dell’Elfo presenta come sua seconda produzione di quest’anno, vi mette una trave nel petto dalla prima all'ultima battuta. L'ambiente, nel testo originale, è un'aula, devastata, in una scuola del sud di Londra, spostati e rovesciati i banchi, rotti i vetri delle finestre, screpolati i muri. Dentro, sei ragazzi sui sedici anni, sei indomabili, sei ribelli. Nessun insegnante ha potuto resistere, in quella Quinta C. La scuola, fuori, nelle altre aule e nei corridoi, prosegue la sua vita normale, i sei, nella classe maledetta restano abbandonati a se stessi.

L’inquietante invenzione dell'autore consiste nel fatto che egli fa gestire quest’inferno dai ragazzi stessi. Essi aspettano qualcuno che porti loro la conoscenza di cui hanno bisogno, che non è soltanto quella dei libri, distribuita nei programmi. E’ qualcosa di più e di diverso, qualcosa che serva loro per la vita. E in questa attesa di un Godot che non arriverà mai perché la società ha già deciso di rifiutarli, quei ragazzi, di abbandonarli alla strada dove sarà inevitabile che ad occuparsi di loro sia la polizia, essi si organizzano una strana pedagogia assembleare, spontaneistica.

Delegano a volta a volta uno di loro a tenere agli altri lezione: sull'argomento che crede, su ciò che conosce. Il gioco non è privo di violenza, che a condurre la trama è il più aggressivo di questi ragazzi, quello che chiamano Iron, il capo riconosciuto. Queste “lezioni”, che sono poi delle confessioni, illuminano di una luce livida particolari e scorci dell'emarginazione giovanile urbana. Violenza e frustrazione, brandelli miserabili della vita dei «vecchi» come quegli occhi spietati la vedono, prefigurazione di un destino comune, solitudine e tragico analfabetismo si compongono a formare i lacerti , quando grottescamente sfilacciati, quando brillanti e compatti come poemi buffoneschi, di uno straordinario psicodramma.

Inevitabilmente la tensione sale, avviene lo scontro frontale fra i due ragazzi più dotati di personalità e più carichi di rabbia repressa. Il professore che compare alla fine non potrà che abdicare alla sua funzione, arrendersi, dichiarare una capitolazione della scuola riconsegnare. con disprezzo, quei ragazzi alla strada. Ma loro non se ne vanno. Aspettano il loro Godot, il Godot della conoscenza. Non hanno rinunciato, loro. Eccolo che forse arriva, è in fondo al corridoio, splendido, coi libri sotto il braccio. Avanti, mister, siamo qui, non ci siamo mossi, in quel momento squilla la campanella che segna la fine delle lezioni. Buio, fuori e dentro. I ragazzi resteranno soli.

E’ un ardente dramma generazionale, generoso patetico e buffo, scritto nello slang giovanile dei quartieri periferici di Londra. Lo seguite senza un momento di distrazione, tesi, angosciati. Vi ha cacciato quella trave nel petto. Elio De Capitani, che ha tradotto il testo insieme con Elisabeth Boeke e che ha curato la regia dello spettacolo (dove interpreta anche la parte di Iron); ne ha fatto un adattamento-riduzione (come già fece Peter Stein quando lo rappresentò alla Schaubühne) che ambienta la vicenda a Milano. Traspare dal dialogo il livido di queste strade, dell’hinterland, delle coree, dei quartieri-dormitorio.

Anche a Milano un geranio può brillare patetico fra rottani della periferia e della vita, le vetrine vanno in pezzi, sfondate dal mattone di vandali sistematici e “innocenti”, vecchi Edipo barcollano nel buio della loro cecità; e ci sono (razzismo in agguato) i “terroni”. Come a Londra i negri e a Berlino i turchi. Il linguaggio è quello, spaventosamente ripetitivo e scatologico, della frangia giovanile urbana. C’è dentro, come sulla faccia d’uno degli attori, una pennellata punk.

Calati in un dramma di cui sentono vicine le ragioni, chiamati ad esprimere dal fondo di un torbido e di una disperazione giovanili, una parola di speranza, sia pure visionaria e, soprattutto, coinvolti in un’operazione teatrale che li radica ad un humus lombardo e contemporaneo, i “ragazzi” dell’Elfo danno questa volta prova di notevole professionalità. E’ una professionalità, in chiave di realismo, parallela a una quotidianità osservata e forse vissuta e dunque di più facile accesso. Ma questo non toglie nulla ai meriti di una recitazione e di una gestualità vive, vere, nell’alternarsi della violenza e dello smarrimento, su e giù per il crinale che separa la buffoneria dal dramma.

Vanno tutti citati, Riccardo Bruni, Claudio Bisio, che è quel Cabriolet dolorosamente chiuso e ironico e poi scatenato e patetico quando viene la sua ora, Antonio Catania, Elio De Capitani, cui si deve il più dell’operazione come regista e traduttore ma che è anche un grintoso Iron, Sebastiano Filocamo, delizioso “terrone”, Paolo Rossi e Maurizio Scattorinm che è il professore.

Tutti sono stati, alla fine, sommersi dalle acclamazioni di un pubblico la cui grande maggioranza ha la loro stessa età.

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Il «Nemico di classe» con Stein in cattedra

Il famoso regista ha aperto la rassegna con gli attori della Schaubühne di Berlino Ovest

Teatro Festival Parma: una settimana di spettacoli, dibattiti, esposizioni, in cui saremo coinvolti un po’ tutti: gli attori, gli operatori, i critici. Un viluppo vivo di ragioni e di presenze che scaturisce da un momento delicato del teatro italiano, un momento in cui i metodi di gestione, la dinamica della spesa pubblica, la stessa funzionalità e agibilità dei locali di spettacolo appaiono in crisi.

Appare in crisi, cosa più grave di tutte, l’immaginazione; l'attore, a vari livelli, è sempre in cerca della propria identità professionale, poiché quella della tradizione e della convenzione non gli basta più; il mestiere del regista sta subendo una fase di eclisse. Intanto la domanda cresce, il pubblico si rinnova e affolla sempre più giovane i teatri. Che cosa uscirà da tutto questo? E' una domanda, certo, cui questo breve festival di Parma, organizzato da Teatro Due, non pretende certo di rispondere. Ma è una domanda che va posta e il merito dell'iniziativa è proprio questo. Un brivido di giovinezza percorre questa manifestazione, che non per nulla si riallaccia a quel Festival Internazionaie del Teatro Universitario che per vent'anni, fino al 1975, fu nella città emiliana un importante punto di riferimento delle forze nuove.

La rassegna degli spettacoli non poteva cominciare che con uno spettacolo giovane: giovane per il tema del dramma rappresentato: giovane per l'età degli interpreti che gli danno vita; giovane per lo spazio scelto e la stessa qualità della regia. E' anche lo spettacolo del teatro più prestigioso fra quelli che partecipano al Feslival, la Schaubühne di Berlino Ovest, diretta da uno dei più importanti registi europei, Peter Stein, che ha fatto una breve comparsa a Parma domenica e ha tenuto un'affollata conferenza-dibattito. La Schaubühne ha portato al Festival Klassenfeind, cioè Class Enemy dell'inglese Nigel Williams, lo stesso testo che, intitolato Nemico di classe, i giovani del Teatro dell'Elfo dl Milano hanno rappresentato con successo ai primi del marzo di quest'anno. I motivi di interesse erano quindi svariati; intanto, rivedere in un'edizione di fama europea un testo già ascoltato in italiano e che esige un'ambientazione sociologica e linguistica particolare, adatta ai paesi in cui viene rappresentato. Poi, non già stabilire un confronto ma una correlazione fra i due modi di interpretarlo.

Nemico di classe , come già si è scritto, è un aspro dramma generazionale. Vi si configura la situazione di alcuni ragazzi sui sedici anni abbandonati a se stessi nell'aula di una scuola d'un quartiere periferico, aula che gli insegnanti hanno disertato per l'impossibilità di inserire in un sistema pedagogico quei sei indomabili ribelli. Essi restano soli e gestiscono da se stessi, organizzandosi una strana pedagogia sposteneistica, quell'inferno dell'assenza. Essi si tengono cioè, a turno, comandati dal più violento di loro, da colui che viene riconosciuto il leader, delle «lezioni».

Si tratta in realtà di confessioni individuali che illuminano lividamente particolari e scorci dell'emarginazione giovanile urbana. Nasce così, tra scoppi di violenza inaudita e improvvisi crolli di tensione, quello che definimmo a suo tempo uno straordinario psicodramma; in quell'aula devastata, dove i banchi vengono fragorosamente rovesciati e ammucchiati in cataste, i muri sono come mangiati dalla muffa acre delle scritte, le finestre sono incrinate da crepe vistose, la lavagna serve per rozze illustrazioni sul sesso.

Si arriverà a uno scontro diretto fra i due ragazzi più dotati di personalità e più carichi di rabbia repressa. Comparirà un professore, alla fine, che non potrà che abdicare alla sua funzione; dichiarare una capitolazione della scuola, riconsegnare con disprezzo quei ragazzi alla strada. Ma loro non se ne andranno, resteranno lì ad aspettare il Godot d'una conoscenza diversa, quel Godot che non arriverà mai.

La citazione della fantomatica ipotesi dl Beckett, rna rapportata alla misura quotidiana della contestazione giovanile, è qui quasi d'obbligo. E non per nulla il dramma raggiunge il suo momento più intenso alla fine, quando attraverso lo spiraglio luminoso della porta aperta uno di quei ragazzi, prigionieri volontari dell'aula maledetta, guarda fuori e crede di intravedere la figura sognata del maestro nuovo e lo chiama e lo invoca e intanto la campanella dà il segnale della fine delle lezioni. Chiuso. Godot non arriva.

Gli attori della Schaubühne, come ha detto Peter Stein, improvvisano molto durante lo spettacolo pur riuscendo a mantenere, ciò che ha dei miracoloso, un ritmo che non muta mai. Trasformano l'originario «slang» della periferia meridionale di Londra nel dialetto berlinese, così come gli attori dell'Elfo adottarono una lingua lombarda contaminata dal gergo, ripetitivo e scatologico, della frangia giovanile urbana.

Ciò che quelli della Schaubühne ci mettono in più è una sorta di violenza sistematica, che dà l'impressione d'esser stata minuziosamente programmata, qui ci pare che l'improvvisazione c'entri davvero per poco. Pur nello scatenamento del gesto o dell'urlo gli italiani, voglio dire, vi davano come un senso di tenerezza, di midollo indifeso e scoperto. Pìù professionalmente attrezzati come sono, gli attori tedeschi conducono il gioco con una determinazione feroce, una immedesimazione, anche nella violenza, che più stanislavskiana di così non potrebbe essere. Ciò dipende anche, probabilmente, dall’impostazione rigorosamente geometrica che Peter Stein ha dato allo spettacolo, collocato in uno spazio triangolare che ha davvero qualcosa del «corral», con quelle pareti logore, la luce sporca e intensa che filtra dai finestroni in alto, gli angoli in cui si ammucchia, a formare gruppi o grumi tragici, la paura.

Così, elementi ben delineati d’un rituale tragico sono alcuni momenti dello spettacolo, come quando i banchi vengono disposti in cerchio a formare il ring per il duello fra i due ragazzi; mentre la misura della disperazione individuale è data da quella specie di martellato colloquio coi muri che gli interpreti conducono quasi di continuo, ogni volta che si emarginano, apparentemente, dall’azione collettiva e cadono in preda alla solitudine.

Sono tutti e sei bravissimi (e sette con il professore). Ma se dobbiamo dire chi ci ha colpiti di più faremo il nome di Ernst Stötzner, che è il duro Fetzer, il capo, e del suo antagonista Vollmond, cioè Luna Piena, interpretato da Udo Sadel.

Per tutti, applausi a non finire dal pubblico, sistemato su una tribuna fortemente verticalizzata che ti dà proprio l’impressione d’essere un voyeur da teatro anatomico.

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