Al Caffè Ghigliottina

“Ça ira”, la Rivoluzione in fabbrica
All’Ansaldo di Milano, anche il Teatro dell’Elfo celebra il Bicentenario

Testata
La Repubblica
Data
16-17 luglio 1989
17-18 dicembre 1989
Firma
Ugo Volli
Giampaolo Spinato
Immagini
Immagine dell'articolo su la Repubblica (1)
Immagine dell'articolo su la Repubblica (2)

Nella grande piazza rugginosa sotto le campate del padiglione 16 dell'ex fabbrica Ànsaldo, il Teatro dell'Elfo ha montato lo spettacolo più complesso e anche uno dei più significativi della sua storia, Ça ira. Sono in realtà tre spettacoli in sequenza, condotti su testi, regie e in luoghi scenici diversi, unificati però da un tema e da un prologo e un epilogo che ne ribadiscono il senso generale, la memoria della Rivoluzione francese.

All'inizio gli spettatori sono condotti in un piccolo spazio laterale, dove assistono ad una riscrittura di Quartett di Heiner Miiller, che a sua volta è un rifacimento delle Liaisons dangereuses. Ferdinando Bruni, che è anche il regista di questa parte dello spettacolo, e Ida Mannelli, con i capelli rasati a zero, svolgono a turno i ruoli dei due diabolici amanti della storia di Laclos, invertendo spesso i loro ruoli e recitandoli in modo da falsificarli secondo i modi una cerimonia genettiana.

Il secondo spettacolo è una specie di talk-show rivoluzionario molto sarcastico e assurdo in cui tre parodie di personaggi storici sono indotti a confessarsi e a scontrarsi davanti al pubblico che dovrà decidere chi di loro dovrà essere ghigliottinato alla fine: una via di mezzo fra il Maurizio Costanzo Show e Al pappagallo verde di Schnitzler, che con la sua spregiudicata contemporaneità post-moderna urta violentemente e insieme consona con il gelido intellettuale autodistruttivo erotismo della prima storia.

Il terzo spettacolo è un rifacimento della Morte di Danton di Büchner secondo una violenta torsione espressionista, che a tratti ricorda i modi del teatro agit-prop o quelli di un certo Living. L'epilogo ritorna a Heiner Müller, prendendo spunto dalla sua Missione: tre inviati della rivoluzione nell'isola degli schiavi falliscono di fronte al nulla della loro condizione umana.

Il risultato di questa costruzione teatrale complessa, lunga quasi quattro ore senza intervallo, e linguisticamente molto spezzata, è un quadro vivido e intenso - non della rivoluzione, naturalmente - ma del modo in cui noi oggi ci interroghiamo e ci atteggiamo di fronte ad essa. Il grande show di questi giorni in Francia è trasposto intelligentemente nel caffè televisivo dove si ghigliottina la gente sulla base di un sondaggio del pubblico.

Certe domande sul rapporto fra politica e felicità, carattere privato e immagine pubblica, necessità della violenza nella storia, popolo e leader, che non possiamo evitare di porci dopo due secoli dal grande momento inaugurale della concezione moderna della politica, prendono forma drammatica in quella specie di oratorio tragico e visivo che Elio De Capitani ha tratto dal conflitto tra Danton e Robespierre. E infine l’erotismo e la violenza, la volontà egotistica di far prevalere il proprio desiderio su ogni ostacolo, la ragione analitica che tratta ogni cosa e ognuno come un mezzo, il gioco esplicito dei ruoli, insomma la struttura profonda della nostra cultura e del nostro modello antropologico sono in gioco nel dialogo infinito dei due aristocratici di Laclos-Müller.

Questa complessità e questa ricchezza autentica dei materiali dello spettacolo si incarnano felicemente in alcune immagini affascinanti e in qualche notevole prestazione d’attore. Quella rete di ragno su cui si arrampicano i due protagonisti di Quartett come insetti dominati dall'istinto o come reclusi; quella bandiera rossa in prospettiva con le navate metalliche della fabbrica che introduce al terzo spettacolo, La danza immobile, poi subito dopo ancora gli attori di questa parte arrampicati sulle impalcature metalliche che ne costituiscono la scena, un «angelo della rivoluzione» con due bandiere incrociate dietro le spalle a mo’ di ali, innalzato a braccio dai compagni; e alla fine nell'epilogo un altro angelo, quello «della disperazione» che non sa volare e si agita disordinatamente appeso a un lungo cavo che scende giù dal tetto altissimo della fabbrica: sono immagini che gli spettatori conservano dentro di sé e che riecheggiano a lungo.

Ferdinando Bruni e soprattutto Ida Mannelli, nella prima parte, ci danno la loro più felice, gelida e intensa prestazione attorale. Café Procope mette assieme alcuni dei più intelligenti «nuovi comici» italiani, come Gigio Alberti, Claudio Bisio, Antonio Catania, Alberto Storti, tutti in ottima forma.

La danza immobile è costruita come una sorta di mosaico di schegge d'attore; del gran lavoro dei molti interpreti mi hanno colpito soprattutto il monologo di Marion di Cristina Crippa, l'allegra dispersione del Danton di Paolo Lorimer, la disperazione della Lucille di Claudia Pozzi e poi ancora Corinna Agustoni, Gabriele Calindri, Paola Ferrari, Andrea Novicov.

Alla fine dal grande relitto industriale si esce stanchi, indolenziti, ma con la contentezza di aver visto per una volta il teatro vincere, dando alla sensibilità e al pensiero una materia viva e forte e nuova con cui combattere.

torna a inizio pagina

Risate rivoluzionarie

I quattro comedians del Café Procope
Proseguono all’Elfo le repliche del fortunato spettacolo del Bicentenario

Al caffè dei rivoluzionari siedono i comedians. Non tutti, ma una parte consistente di quel vulcanico manipolo di nuovi comici cresciuti in contiguità o dentro il fortunato spicchio di storia che per l'Elfo va da Nemico di classe a Comedians, appunto. Sono quattro, accomunati dalla proverbiale voglia di divertirsi prima di divertire e dalla sopraggiunta maturità espressiva, dopo quasi un decennio di sudato, esaltante e movimentato tirocinio. Nominiamoli. Claudio Bisio o della paziente lievitazione: una laurea in chimica alle ortiche, un apprendistato schizofrenico tra l'ovattato ambiente artistoide dell'accademia e l'indomito bisogno-desiderio di tuffarsi nel teatro vero pur proseguendo il fruttuoso investimento autarchico; Antonio Catania: il più « inglese » della banda strapparisate che in questi anni ha conteso al Sud e alla Toscana il primato del cabaret; Alberto Storti: Bebo per gli amici, antieconomico esempio di autogestione professionale, ma dotato di un appeal e di una personalità scenica che attende solo un lungimirante regista «sfruttatore»; e poi Gigio Alberti: il Pakistan di Zanzibar che centellina intelligentemente le sue risorse dipanando in tutta calma la vena caricaturale scoperta in Eldorado e riservandosi probabilmente di archiviare la voce chioccia e il corpo teso solo a sicurezza acquisita.

Prolusione non oziosa questa sul background degli autori-attori di Café Procope (la regia è di Gabriele Salvatores: si replica al teatro dell'Elfo fino al 6 gennaio) perché spiega in qualche modo come il «mestiere» di comico non sia proprio quel bouquet di caramelle e fiori che certa retorica d'accatto, approfittando della moda e della credulità, ci inghirlanda. E l’intensa storia di molti dei comedians nati e cresciuti artisticamente nella doppia morsa di uno show-business bellicante ma anchilosato e dell'irrinunciabile spinta a incunearsi in questo mercato in modo alternativo, insegna che nessuna scrittura «paga» come un lavoro pensato, creato, corretto e ricreato in ensemble sul palcoscenico.

Prima di tutto il resto, quindi, Café Procope è la ritrovata possibilità di giocarsi l'esperienza attorale capitalizzata in questi anni, senza sacrificare niente (neppure gli errori o le sbavature) sull'altare del target o del packaging che, come parole, metteranno anche l’asma a Nanni Moretti, ma esistono e ci chiedono di essere aggirate (raggirate?) più che rimosse se non vogliamo essere seppelliti dall'omologia che sotteraneamente inoculano.

Senza briglie, i nostri, vanno assai bene. E conta relativamente la contestualizzazione del dibattito rivoluzionario. Pretesto era quest'estate la celebrazione del Bicentenario che accorpò al trittico del Ça Ira questo «sarcastico e assurdo» talk-show, come scrisse Ugo Volli su Repubblica.E pretesto rimane ora che lo spettacolo ha una vita propria: con Fabre d'Englantine (Antonio Catania), inventore dei "nuovi nomi del calendario, un conte (Alberto Storti) lussurioso ma rivoluzionario, un contadino (Gigio Alberti), chiamati da Procope (Claudio Bisio) a misurare meriti e lacune della propria adesione all'utopia del cambiamento.

Tra il trivio e la chiacchiera salottiera, la conversazione insegue, perde, riprende il bandolo dell'argomento rivoluzionario, incastonando felici cammei comici, paradossi e allusioni, in un canovaccio di improvvisazioni e battute preordinate che deve i suoi esiti alterni anche alla composizione del pubblico e all'andamento della serata. Il pregio dello spettacolo è anche quello di essere imperfetto e perciò di avvicinarsi con la felice approssimazione del «qui ed ora» alla perfezione del teatro. Con tanto di coinvolgimento del pubblico (chiamato a votare l'ospite più «ghigliottinabile») nel ravvicinato rapporto tra scena e spettatori che la scenografa Thalia Istikopoulou ha istituito aggettando il patibolo verso la platea.

torna a inizio pagina